Dopo un decennio di silenzio, Sean Byrne (The Loved Ones, The Devil’s Candy) torna con Dangerous Animals, un survival horror psicologico che ribalta le regole del genere. Presentato alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes 2025, il film è ambientato al largo della costa australiana, dove l’oceano diventa teatro di una prigionia brutale e disturbante. La protagonista è Zephyr (Hassie Harrison), una surfista americana libera e solitaria, che viene rapita da Tucker (Jai Courtney), ex militare e serial killer ossessionato dagli squali. A bordo della sua barca, Tucker mette in scena un rituale macabro: filmare le sue vittime mentre vengono divorate da squali, in una sorta di culto personale della selezione naturale. Noi di Cinefily lo abbiamo visto per voi. Curiosi di sapere cosa ne pensiamo?
LA TRAMA
Un macabro gioco di sopravvivenza
Il film racconta la storia di Zephyr, una giovane surfista, che viene rapita da un serial killer ossessionato dagli squali e tenuta prigioniera su una barca. Il killer, Tucker, prepara un macabro rituale per offrire la ragazza in pasto agli squali. Zephyr dovrà lottare per sopravvivere e affrontare il suo peggior predatore, l’uomo. Il film è un thriller che esplora temi di sopravvivenza, paura e il lato oscuro della natura umana.
INFO & CAST
Durata 98 min
Regia Sean Byrne
Cast
Jai Courtney: Tucker
Hassie Harrison: Zephyr
Josh Heuston: Moses
Ella Newton: Heather
Rob Carlton: Dave
LA RECENSIONE
Tucker, tra sadismo umano e tensione marina
A dieci anni da The Devil’s Candy, Sean Byrne torna dietro la macchina da presa con un horror che mescola sadismo umano e tensione marina in un cocktail visivo e narrativo volutamente sopra le righe. Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2025, il film si impone come un guilty pleasure estivo che omaggia e sovverte i codici del cinema di squali, trasformando l’oceano australiano in un palcoscenico per rituali macabri e visioni pulp.
Diciamolo subito, il cuore pulsante del film è Tucker (Jai Courtney), un ex marinaio solitario che ha trasformato la sua barca in una prigione galleggiante e in un set per snuff movies. La sua ossessione per gli squali si traduce nel rituale sadico di cui abbiamo già parlato. Tucker non è solo un assassino, ma un performer del dolore, un regista mancato che trasforma l’orrore in arte disturbante. I cinefili più appassionato del genere, avranno notato che La sua figura richiama Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti, ma con un’ironia grottesca che lo rende ancora più inquietante. Noi abbiamo avuto l’opportunità di vederlo in lingua originale e il tono della voce di Tucker è semplicemente sensazionale. A contrastarlo c’è Zephyr (la bellissima Hassie Harrison) e la sua evoluzione da preda a predatrice, invece, è il fulcro emotivo del film. Accanto a lei, Moses (Josh Heuston), giovane atleta sensibile, incarna una mascolinità alternativa che si oppone al machismo tossico di Tucker. Il triangolo narrativo funziona proprio perché ribalta le aspettative: la “final girl” non è solo una sopravvissuta, ma una figura attiva e letale, capace di affrontare il trauma con lucidità e ferocia.
Estetica e linguaggio visivo: tra VHS e atmosfera retrò
La regia di Byrne, con gli anni, si è evoluta tantissimo ed è un esercizio di stile consapevole. La fotografia di Shelley Farthing-Dawe alterna colori saturi e sequenze notturne opprimenti, mentre gli effetti speciali esagerati restituiscono un’estetica pulp che sembra uscita da un fumetto horror underground. L’uso delle videocassette, dei televisori malandati e dei nastri analogici crea un’atmosfera retrò che amplifica volutamente il senso di claustrofobia e follia. Il film gioca con il cattivo gusto, trasformandolo in linguaggio cinematografico. Bravissimo in questo anche lo sceneggiatore Nick Lepard che usa dialoghi veloci e sferzanti, senza mai farci annoiare con spiegoni o scene troppo didascaliche.
Riflessioni metacinematografiche, citazioni e limiti
Dangerous Animals è un film che conosce le regole del genere e si diverte a ribaltarle. L’omaggio a Lo squalo di Spielberg è evidente, ma filtrato attraverso l’estetica del B-movie più sfacciato. Le citazioni non si limitano al filone acquatico: il balletto in accappatoio di Tucker davanti alla telecamera è un momento volutamente grottesco che richiama il cinema horror degli anni ’80 e ’90. Byrne costruisce un gioco perverso tra spettatore e immagine, tra ciò che viene mostrato e ciò che viene suggerito, trasformando la visione in un’esperienza sensoriale disturbante. Byrne non cerca la profondità psicologica, ma la tensione viscerale, il trauma incarnato. Il risultato è un’opera che non rappresenta, ma emula; non racconta, ma divora. La musica e il sound design giocano un ruolo fondamentale nel creare disagio e immersione. Le sonorità metal, i rumori distorti delle videocassette, il ruggito degli squali: tutto contribuisce a un’esperienza sensoriale intensa. La colonna sonora non accompagna semplicemente le immagini, ma le amplifica, le contamina, le rende più viscerali.
Uno dei limiti più evidenti del film è proprio la sua tendenza all’eccesso visivo. Se da un lato l’estetica pulp e retrò è parte integrante del linguaggio di Sean Byrne, dall’altro alcune sequenze risultano talmente sopra le righe da sfiorare il kitsch involontario. L’uso esasperato di luci stroboscopiche, sangue artificiale e montaggi frenetici può stancare lo spettatore, soprattutto nei momenti in cui la tensione dovrebbe essere più sottile e psicologica. Il film fatica anche a dare spessore agli altri personaggi. Le vittime di Tucker, ad esempio, sono spesso ridotte a semplici comparse funzionali alla narrazione, senza una vera caratterizzazione. Tuttavia, l’originalità va premiata e quindi ci sentiamo di dare 3.5 stelle.
Il voto di Cinefily



