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“Wolf Man” è l’atteso horror americano diretto e co-scritto da Leigh Whannell. Si tratta del reboot di “The Wolf Man”(1941) e ha come protagonisti Christopher Abbott e Julia Garner. Il re Mida Jason Blum (con la sua Blumhouse) e Ryan Gosling sono i produttori della pellicola che s’inserisce nel Dark Universe della Universal, con l’intenzione di riportare in auge tutti i “mostri” più celebri del cinema. Già dal trailer, la tensione e l’angoscia si tagliano col coltello. Noi l’abbiamo visto per voi e, come al solito, leggete la nostra recensione senza spoiler per farvi un’idea e poi correte al cinema.

LA TRAMA

Il graffio maledetto della bestia

Blake (Christopher Abbot) si trasferisce da San Francisco all’Oregon con la moglie stacanovista Charlotte (Julia Garner) e la figlia Ginger (Matilda Firth) dopo aver ereditato la casa della sua infanzia, rimasta vuota in seguito alla misteriosa scomparsa e presunta morte del padre separato. Nella fattoria di notte durante la luna piena, la famiglia viene attaccata da un lupo mannaro che artiglia il braccio di Blake. Si barricano all’interno della casa, ma presto l’uomo inizia a trasformarsi in qualcosa di orribile, mettendo a repentaglio la sicurezza della moglie e della figlia.

 

INFO & CAST
Anno 2024
Durata 103 min
Regia Leigh Whannell

Cast
Christopher Abbott: Blake Lovell/Wolf Man
Julia Garne: Charlotte
Matilda Firth: Ginger
Sam Jaeger: Grady Lovell

LA RECENSIONE

La mutazione come malattia fulminante che trasforma in qualcos’altro

Di film sull’Uomo Lupo, o in generale sui lupi mannari ce ne sono tantissimi, quindi eravamo un po’ scettici prima di recarci in sala. Ma ci siamo fidati di Blum e della sua Blumhouse e abbiamo voluto vedere cosa ci fosse di nuovo in questa versione, cosa non fosse stato ancora raccontato in merito. Leigh Whannell – attore, sceneggiatore e produttore (della saga di “Saw”) – fece il suo debutto alla regia con “Insidious 3 – L’inizio”(2015) e nel 2020 ci ha regalato “L’uomo invisibile”, altra storia che narra di una mutazione o comunque della trasformazione di un uomo in qualcos’altro. Ora, in “Wolf Man”, il regista, autore anche della sceneggiatura con Corbett Tuck, si concentra molto sul momento della trasformazione, e lo fa come se l’uomo fosse stato colpito da una malattia fulminante che, invece di ammazzarlo, lo trasforma in qualcos’altro. La mutazione di Blake è lenta, drammatica e dolorosa e, quello che doveva essere l’uomo che doveva proteggere a tutti i costi la sua famiglia, diventa il nemico numero uno, il mostro dal quale fuggire. La macchina da presa si sposta in base ai punti di vista dei vari attori, offrendoci il loro punto di vista, e questo è straordinario. Attraverso i loro occhi possiamo capire la percezione della trasformazione a cui stanno assistendo e come reagiscono, rendendo il tutto molto realistico.

L’incomunicabilità, la punizione più grande

Un grande lavoro è stato fatto da Stefan Duscio, direttore della fotografia, dato che per 103 minuti vige il buio, squarciato da sprazzi di luce che rivelano la semi-trasformazione della bestia, a partire dall’angosciante scena iniziale dell’incidente fino al finale alquanto scontato ma comunque avvincente e adrenalinico. Ciò che ci ha colpito di più è il fatto che, stavolta, la mutazione è molto più psicologica che fisica. Blake inizia a perdere i denti, i tratti cambiano, ma la cosa peggiore è la perdita della parola, l’incomunicabilità con la famiglia è la sua punizione più grande, e quindi l’horror diventa dramma assoluto che trascinerà tutta la famiglia in un incubo totale da cui sarò difficile uscirne vivi. A differenza del trailer, Whannell non esagera con i jumscare, anzi, la tensione cresce di minuto in minuto ma siamo più interessati alla trasformazione lenta (forse troppo?) di Blake e del suo dolore che alla sue malefatte da bestia. Bravo Abbott nei panni del protagonista, meno la Garner in quelli della moglie dagli atteggiamenti forse troppo forzati (peccato!) e una bella sorpresa è rappresentata invece dalla giovane Matilda Firth.

103 minuti fluidi ma non privi di difetti

I 103 minuti di durata sono ben calibrati e non "s'inceppano" in didascalie o spiegoni che potevano appesantire il tutto, anche perché il montaggio di Andy Canny è perfetto e scorrevolissimo e le musiche di Benjamin Wallfisch sono un vero e proprio capolavoro, mai invadenti. Il budget di 25 milioni di dollari è stato ben speso perché in questo horror ciò che prevale è la mente, la sua trasformazione rispetto al corpo, la psiche che da umana diventa animale, l’uomo che da protettore diventa minaccia. Difetti ce ne sono, per carità, abbiamo già citato la lentezza nella trasformazione o la “confusione” attoriale della Garner, come anche una certa fretta di arrivare al finale. Alcuni saranno anche delusi dalla semi-trasformazione del protagonista ma ci sta, perché nel progetto di Whannell tutti questi punti erano già previsti, voluti. Siamo sicuri, per tutti questi motivi, che il film spaccherà il pubblico nettamente in due, ma è impossibile non ammettere che il regista e la Blumhouse non siano riusciti a dare la propria impronta originale alla storia trita e ritrita del Lupo Mannaro.

Il voto di Cinefily

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